Dusmet arcivescovo di Catania
Nello stesso 1867 iniziò a circolare la voce che il papa avesse intenzione di nominare il Dusmet vescovo di Caltanissetta, al posto di mons. Giovanni Guttadauro, promosso all'arcivescovato catanese. Era tutto pronto e lo stesso segretario del Dusmet era in procinto di annunziare ai confratelli la nomina, ma la lettera che giunse da Roma, datata 22 febbraio, annunciava una destinazione diversa: Dusmet era chiamato ad essere il nuovo arcivescovo di Catania, dopo quattro anni di sede vacante. I catanesi accolsero con grande gioia la nomina, che sanciva definitivamente il legame già instaurato fra l'abate e la città.
Consacrato vescovo nella basilica di S. Paolo fuori le Mura a Roma il 10 marzo, per le mani del card. Antonio Saverio de Luca, il 14 dello stesso mese indirizzava ai suoi diocesani una lettera, in cui delineava quello che sarebbe stato il suo programma. Le paterne parole dell'arcivescovo, rivolte in lingua vernacolare, suscitarono grande interesse presso tutto il popolo, che da anni era senza pastore e che, conoscendo già il Dusmet, riponeva in lui le sue più intime speranze.
Poco meno di un mese dopo, il desidrato pastore faceva il suo ingresso in Catania. Era l'8 aprile, il Dusmet "apparve allora al suo popolo, così come sarebbe rimasto imperituro nella venerazione universale. Col semplice abito benedettino, con al petto la piccola croce d'oro, sul capo lo zucchetto violaceo, la slanciata figura, signorile nell'umiltà; e fu un saluto frenetico di folla strabocchevole" (Leccisotti, Il cardinale Dusmet, p. 179). L'arcivescovo andò ad alloggiare nella sua vecchia cella nel monastero di S. Nicolò, dove ricevette l'omaggio dei notabili e l'affetto di tutto il popolo, che affollava così tanto il monastero da costringerlo ad uscire nei corridoi a salutare. Giovedì 11 aprile un lungo corteo di sacerdoti e seminaristi accompagnò l'arcivescovo in Cattedrale, dove celebrò il suo primo pontificale, con così gran concorso di popolo che non si poté continuare il canto del Te Deum che egli aveva intonato. Rivolgendo il suo saluto ai presenti, così sintetizzava le sue intenzioni nell'accettare il grave compito dell'episcopato: "Io mi farò tutto a tutti, parteciperò alle vostre gioie, alle vostre angosce, soffrirò la fame, la sete, il caldo, il freddo, ogni sorta di disagio, sarò disposto a qualunque sacrifizio di tal che ove anche mi occorresse, dirò con San Giovanni Crisostomo, di essere caricato di catene pel meglio delle anime vostre, ne sarei ben lieto ed onorato...". E, rivolto ai fedeli, aggiungeva: "Bisogna reciprocanza di volere e di azioni fra me e voi... è necessario che anche voi mi amiate" (Omelia durante la celebrazione per l'ingresso in diocesi, 11 aprile 1867).
Queste parole del Dusmet, lette oggi, più che un programma o un'intenzione, suonano come una profezia, perché il suo lungo episcopato, durato ben 27 anni, fu costellato di esperienze dolorose per il popolo catanese, e in tali circostanze l'arcivescovo diede prova di quanto le parole pronunziate nei primi giorni del suo episcopato non fossero mere promesse ma un impegno concreto.
Nelle varie biografie del Dusmet si narrano, con dovizia di particolari e con abbondanza di documenti e testimonianze, i giorni difficili che la Chiesa catanese dovette affrontare nell'ultimo trentennio del XIX secolo. Qui mi limiterò ad accennare ai vari episodi, soprattutto sottolineando quanto il Dusmet fece in quelle circostanze.
Già nel 1867, poche settimane dopo il suo ingresso in diocesi, si recava a sorpresa a Caltanissetta per portare la sua parola d'affetto e consolazione alla popolazione, nuovamente afflitta da una sciagura nelle miniere, che aveva provocato quarantadue morti.
Ma fu, ovviamente, Catania il terreno favorito in cui poterono manifestarsi la grande carità e sollecitudine del pastore, in un susseguirsi di sciagure e calamità naturali che si scagliarono contro quella terra durante gli anni del suo episcopato. Appena due mesi dopo il suo ingresso, nel mese di giugno del 1867, ricompariva il colera, in maniera così impetuosa che a luglio aveva già mietuto centinaia di vittime. Chi ebbe la possibilità fuggì lontano dalla città, rimasero abbandonati i poveri e quanti non avevano grandi possibilità finanziarie, persino le amministrazioni rimasero vuote, essendo tutti fuggiti verso l'Etna.
In mezzo a tanta desolazione, il nuovo arcivescovo, avendo già vissuto quella situazione, sapeva come muoversi. Molti dei suoi sacerdoti, seguendo il suo esempio, lo accompagnavano ogni mattina, dopo la celebrazione della messa, per il giro quotidiano dei colerosi, senza neanche sostare per il pranzo, ma dedicando quel tempo ad ascoltare i bisogni di quanti andavano nel monastero di S. Chiara a portare le loro suppliche. Quindi, riprendendo le visite agli ammalati fino al tramonto; "quando gli ammalati non volevano prendere la medicina pel pregiudizio che vi fosse inoculato il colera, egli non aveva a schifo, per incoraggiare l'infermo, di appressare il labbro ad un bicchiere sudicio o ad un cucchiaio di latta irruginita per sorbire un po' del medicinale" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 246). Non avendo ancora la mensa vescovile, l'arcivescovo vendette o impegnò tutto quello che aveva, ad iniziare dalle posate d'argento, fino ad arrivare alla croce pettorale, che diverse volte venne impegnata, fino a quando non fu definitivamente venduta. Alla fine dell'epidemia, le sue finanze erano ridotte all'osso e il Dusmet divenne il più illustre povero catanese, tanto che i nobili della città fecero una colletta in suo favore e l'amministrazione si prodigò affinché gli fosse assegnata la mensa.
Nel 1879 un'eruzione potente dell'Etna provocò terrore e danni in tutto il versante Nord-Ovest, il Dusmet subito accorse ad aiutare le popolazioni afflitte e ottenne dalle autorità municipali di convertire le 12.000 lire stanziate per la festa di sant'Agata in aiuti per i disastrati. A questi riuscì ad aggiungere 2.500 lire di tasca sua e con il contributo del seminario, del Capitolo e dei monasteri catanesi.
Nello stesso anno, il 17 giugno, un terremoto provocò enormi danni a Bongiardo, dove crollarono la chiesa e diverse case. Il Dusmet accorse subito e si portò fra le macerie, senza tener conto della fatica e del pericolo. "Mi ricordo che mi impedì di seguirlo - scriveva il segretario dom Luigi Taddeo Della Marra -, quello dei dirupi non era territorio mio" (Della Marra, Per le mie nozze d'oro, p. 5). Anche questa volta riuscì a trovare un'ingente somma, raccolta per la carità del popolo catanese, in favore dei bongiardesi.
Nel gennaio 1880 violenti e persistenti piogge ridussero Catania e i paesi limitrofi alla carestia. Il Dusmet non perse tempo e aprì subito il suo episcopio affinché tutti coloro che avevano bisogno, specialmente gli abitanti delle zone più colpite e gli operai rimasti senza lavoro, potessero ricevere un piccolo contributo finanziario o dei viveri e, per coloro che non potevano perché ammalati o impossibilitati, si recava egli stesso a dividere le derrate con un carretto pieno di viveri. Commossi e spinti dal suo esempio, anche i canonici del Capitolo vollero contribuire sorteggiando fra le vedove 21 legati. In quell'occasione, per la prima volta, la città lo salutò come "padre dei poveri".
Tre anni dopo, il 23 marzo, mercoledì santo, un nuovo violento terremoto scosse Zafferana Etnea, Pedara e Nicolosi, e nella notte ebbe inizio un'eruzione del vulcano. Il Dusmet, sentita la notizia, lasciò l'ausiliare mons. Antonino Caff a celebrare la Messa in Coena Domini e andò subito a Nicolosi, dove si stabilì in una piccola casa messagli a disposizione da un prete, dove passava il giorno a confortare la popolazione e portare aiuti.Egli rimase 18 giorni fra di loro, preferendo celebrare la "Pasqua del suo popolo" piuttosto che la Pasqua liturgica.
Lo stesso avvenne nel 1883, quando una nuova eruzione minacciò Nicolosi. Anche allora il Dusmet si recò subito a consolare l'impaurita popolazione.
L'anno successivo, il 7 ottobre, una violenta tromba d'aria colì Cibali superiore, Borgo superiore e Ognina, zone costiere di Catania, distruggendo le casupole e danneggiando seriamente anche le case più resistenti, provando diversi morti e feriti. Per cinque giorni il Dusmet attraversò quel disastro portando aiuto, indumenti e viveri.
Nel settembre 1885 un altro terremoto colì le zone di Nicolosi e, il 25 settembre, il Dusmet si recò subito nel paese etneo per soccorrere la popolazione con tutte le forze e le possibilità che aveva: "Di giorno e di notte, non curando né dispendi, né salute, si moltiplicò dappertutto, ov'era più lacrimevole il disastro, fornì di case improvvisate i fuggiaschi, soggiornò tra i dolorosi e gli sgomentati, fino a che il pericolo fu scongiurato, e ciascuno poté riparare ai suoi danni" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 238). Proprio mentre era a soccorrere i terremotati una nuova epidemia di colera, stavolta breve, colpiva la città di Catania, e il Dusmet accorreva a soccorrere anche ai poveri ammalati.
Nel maggio del 1886 si verificò una delle più lunghe e preoccupanti eruzioni dell'Etna, che, ancora una volta, minacciava l'abitato di Nicolosi. Per diverse settimane tutta la popolazione rimase in fermento per il pericolo della lava, che continuava minacciosa a percorrere la via verso il paese. Il Dusmet si recò subito a Nicolosi per accertarsi della situazione: qui pernottava fra gli sfollati, celebrava in una capanna-cappella e stava tutto il giorno fra la popolazione impaurita. Vedendo che il vulcano non accennava a diminuire la sua furia, tornò a Catania e, il 24 maggio, salì in processione con il velo taumaturgico di sant'Agata, invocando la martire catanese affinché aiutasse quella popolazione, fermando, com'era già accaduto precedentemente, il vulcano.
Giunto agli Altarelli, un'edicola nei pressi di Nicolosi, avendo di fronte l'alta sciara della lava viva, si inginocchiò e pose per terra la reliquia, pregando. Poi, rivolto alla popolazione, disse: "Figli miei, in quest'ora solenne Nicolosi è in preda allo spavento e al terrore. Vi esorto a pregare fervorosamente la nostra eroina sant'Agata. Non temete! Ho tanta fiudcia in sant'Agata, che Nicolosi sarà salvo".
Il 29 già tutta la popolazione iniziò ad allontanarsi dal paese, ormai dato per perduto: erano state svuotate le case, divelte le porte e le finestre e qualunque altra cosa si potesse portar via. Ma, appena quattro giorni dopo, mentre il Dusmet si trovava poggiato al muro della chiesa per riposare, dopo aver assistito i pochi rimasti, ecco una voce che annunciava il miracolo: "A soli 327 metri dalle prime case, in quel punto ove monsignore arcivescovo si era fermato col Velo prodigioso di sant'Agata, s'arrestò la lava trattenuta dalla mano di Dio, là dove naturalmente non poteva fermarsi" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 273), cioè su un declivio. E così il 13 giugno tutta la popolazione, dietro i simulacri dei santi patroni, faceva ritorno al paese.
La serie delle sciagure si chiuse nel 1887, quando agli inizi di marzo riapparve il colera. Stavolta, ormai esperto, l'arcivescovo curò la formazione diretta di alcuni sacerdoti e laici per l'assistenza degli ammalati, ed egli stesso non mancò di dare per primo l'esempio, recandosi ogni giorno al lazzaretto e presso i poveri ammalati. L'epidemia durò sino a novembre: il 29, a spese del Dusmet, furono celebrati i funerali delle vittime del morbo; in tutto, durante l'epidemia, aveva speso 75.000 lire.
E, per quanto gli fu possibile, inviò aiuti anche ad altre diocesi colpite da sventure, come nel 1882 per le inondazioni avvenute in alta Italia, per il terremoto di Ischia e Casamicciola, per il colera del 1884 a Napoli, Spezia, Busca, in Spagna, nel 1885 per la stessa epidemia che colpì Palermo, oltre a diverse occasioni in cui aiutò le Congregazioni religiose da poco nate e bisgnose di aiuti (come fece spesso con i Salesiano di don Bosco, n.d.r.).
Per le sue opere di carità il Dusmet ricevette due medaglie d'oro da parte del Governo e una da parte del Santo Padre. Ma il segno di gratitudine più importante fu senz'altro la porpora cardinalizia, che gli fu conferita da Leone XIII al termine dell'impegno profuso dal Dusmet per la riapertura del Collegio Sant'Anselmo, in previsione della confederazione di tutte le Congregazioni benedettine.
Testo tratto da Giovanni Carovello Grasta, La nostra bandiera è la concordia. L'ecclesiologia del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, arcivescovo di Catania (1867-1894), tesi di Licenza anno 2017-2018, pp. 12-17.
E' vietata la pubblicazione del testo o di parte di esso, per ottenere il permesso gratuito si può inoltrare richiesta all'amministratore del sito, specificando la motivazione e il luogo della pubblicazione.
Per approfondire si consiglia:
Nello stesso 1867 iniziò a circolare la voce che il papa avesse intenzione di nominare il Dusmet vescovo di Caltanissetta, al posto di mons. Giovanni Guttadauro, promosso all'arcivescovato catanese. Era tutto pronto e lo stesso segretario del Dusmet era in procinto di annunziare ai confratelli la nomina, ma la lettera che giunse da Roma, datata 22 febbraio, annunciava una destinazione diversa: Dusmet era chiamato ad essere il nuovo arcivescovo di Catania, dopo quattro anni di sede vacante. I catanesi accolsero con grande gioia la nomina, che sanciva definitivamente il legame già instaurato fra l'abate e la città.
Consacrato vescovo nella basilica di S. Paolo fuori le Mura a Roma il 10 marzo, per le mani del card. Antonio Saverio de Luca, il 14 dello stesso mese indirizzava ai suoi diocesani una lettera, in cui delineava quello che sarebbe stato il suo programma. Le paterne parole dell'arcivescovo, rivolte in lingua vernacolare, suscitarono grande interesse presso tutto il popolo, che da anni era senza pastore e che, conoscendo già il Dusmet, riponeva in lui le sue più intime speranze.
Poco meno di un mese dopo, il desidrato pastore faceva il suo ingresso in Catania. Era l'8 aprile, il Dusmet "apparve allora al suo popolo, così come sarebbe rimasto imperituro nella venerazione universale. Col semplice abito benedettino, con al petto la piccola croce d'oro, sul capo lo zucchetto violaceo, la slanciata figura, signorile nell'umiltà; e fu un saluto frenetico di folla strabocchevole" (Leccisotti, Il cardinale Dusmet, p. 179). L'arcivescovo andò ad alloggiare nella sua vecchia cella nel monastero di S. Nicolò, dove ricevette l'omaggio dei notabili e l'affetto di tutto il popolo, che affollava così tanto il monastero da costringerlo ad uscire nei corridoi a salutare. Giovedì 11 aprile un lungo corteo di sacerdoti e seminaristi accompagnò l'arcivescovo in Cattedrale, dove celebrò il suo primo pontificale, con così gran concorso di popolo che non si poté continuare il canto del Te Deum che egli aveva intonato. Rivolgendo il suo saluto ai presenti, così sintetizzava le sue intenzioni nell'accettare il grave compito dell'episcopato: "Io mi farò tutto a tutti, parteciperò alle vostre gioie, alle vostre angosce, soffrirò la fame, la sete, il caldo, il freddo, ogni sorta di disagio, sarò disposto a qualunque sacrifizio di tal che ove anche mi occorresse, dirò con San Giovanni Crisostomo, di essere caricato di catene pel meglio delle anime vostre, ne sarei ben lieto ed onorato...". E, rivolto ai fedeli, aggiungeva: "Bisogna reciprocanza di volere e di azioni fra me e voi... è necessario che anche voi mi amiate" (Omelia durante la celebrazione per l'ingresso in diocesi, 11 aprile 1867).
Queste parole del Dusmet, lette oggi, più che un programma o un'intenzione, suonano come una profezia, perché il suo lungo episcopato, durato ben 27 anni, fu costellato di esperienze dolorose per il popolo catanese, e in tali circostanze l'arcivescovo diede prova di quanto le parole pronunziate nei primi giorni del suo episcopato non fossero mere promesse ma un impegno concreto.
Nelle varie biografie del Dusmet si narrano, con dovizia di particolari e con abbondanza di documenti e testimonianze, i giorni difficili che la Chiesa catanese dovette affrontare nell'ultimo trentennio del XIX secolo. Qui mi limiterò ad accennare ai vari episodi, soprattutto sottolineando quanto il Dusmet fece in quelle circostanze.
Già nel 1867, poche settimane dopo il suo ingresso in diocesi, si recava a sorpresa a Caltanissetta per portare la sua parola d'affetto e consolazione alla popolazione, nuovamente afflitta da una sciagura nelle miniere, che aveva provocato quarantadue morti.
Ma fu, ovviamente, Catania il terreno favorito in cui poterono manifestarsi la grande carità e sollecitudine del pastore, in un susseguirsi di sciagure e calamità naturali che si scagliarono contro quella terra durante gli anni del suo episcopato. Appena due mesi dopo il suo ingresso, nel mese di giugno del 1867, ricompariva il colera, in maniera così impetuosa che a luglio aveva già mietuto centinaia di vittime. Chi ebbe la possibilità fuggì lontano dalla città, rimasero abbandonati i poveri e quanti non avevano grandi possibilità finanziarie, persino le amministrazioni rimasero vuote, essendo tutti fuggiti verso l'Etna.
In mezzo a tanta desolazione, il nuovo arcivescovo, avendo già vissuto quella situazione, sapeva come muoversi. Molti dei suoi sacerdoti, seguendo il suo esempio, lo accompagnavano ogni mattina, dopo la celebrazione della messa, per il giro quotidiano dei colerosi, senza neanche sostare per il pranzo, ma dedicando quel tempo ad ascoltare i bisogni di quanti andavano nel monastero di S. Chiara a portare le loro suppliche. Quindi, riprendendo le visite agli ammalati fino al tramonto; "quando gli ammalati non volevano prendere la medicina pel pregiudizio che vi fosse inoculato il colera, egli non aveva a schifo, per incoraggiare l'infermo, di appressare il labbro ad un bicchiere sudicio o ad un cucchiaio di latta irruginita per sorbire un po' del medicinale" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 246). Non avendo ancora la mensa vescovile, l'arcivescovo vendette o impegnò tutto quello che aveva, ad iniziare dalle posate d'argento, fino ad arrivare alla croce pettorale, che diverse volte venne impegnata, fino a quando non fu definitivamente venduta. Alla fine dell'epidemia, le sue finanze erano ridotte all'osso e il Dusmet divenne il più illustre povero catanese, tanto che i nobili della città fecero una colletta in suo favore e l'amministrazione si prodigò affinché gli fosse assegnata la mensa.
Nel 1879 un'eruzione potente dell'Etna provocò terrore e danni in tutto il versante Nord-Ovest, il Dusmet subito accorse ad aiutare le popolazioni afflitte e ottenne dalle autorità municipali di convertire le 12.000 lire stanziate per la festa di sant'Agata in aiuti per i disastrati. A questi riuscì ad aggiungere 2.500 lire di tasca sua e con il contributo del seminario, del Capitolo e dei monasteri catanesi.
Nello stesso anno, il 17 giugno, un terremoto provocò enormi danni a Bongiardo, dove crollarono la chiesa e diverse case. Il Dusmet accorse subito e si portò fra le macerie, senza tener conto della fatica e del pericolo. "Mi ricordo che mi impedì di seguirlo - scriveva il segretario dom Luigi Taddeo Della Marra -, quello dei dirupi non era territorio mio" (Della Marra, Per le mie nozze d'oro, p. 5). Anche questa volta riuscì a trovare un'ingente somma, raccolta per la carità del popolo catanese, in favore dei bongiardesi.
Nel gennaio 1880 violenti e persistenti piogge ridussero Catania e i paesi limitrofi alla carestia. Il Dusmet non perse tempo e aprì subito il suo episcopio affinché tutti coloro che avevano bisogno, specialmente gli abitanti delle zone più colpite e gli operai rimasti senza lavoro, potessero ricevere un piccolo contributo finanziario o dei viveri e, per coloro che non potevano perché ammalati o impossibilitati, si recava egli stesso a dividere le derrate con un carretto pieno di viveri. Commossi e spinti dal suo esempio, anche i canonici del Capitolo vollero contribuire sorteggiando fra le vedove 21 legati. In quell'occasione, per la prima volta, la città lo salutò come "padre dei poveri".
Tre anni dopo, il 23 marzo, mercoledì santo, un nuovo violento terremoto scosse Zafferana Etnea, Pedara e Nicolosi, e nella notte ebbe inizio un'eruzione del vulcano. Il Dusmet, sentita la notizia, lasciò l'ausiliare mons. Antonino Caff a celebrare la Messa in Coena Domini e andò subito a Nicolosi, dove si stabilì in una piccola casa messagli a disposizione da un prete, dove passava il giorno a confortare la popolazione e portare aiuti.Egli rimase 18 giorni fra di loro, preferendo celebrare la "Pasqua del suo popolo" piuttosto che la Pasqua liturgica.
Lo stesso avvenne nel 1883, quando una nuova eruzione minacciò Nicolosi. Anche allora il Dusmet si recò subito a consolare l'impaurita popolazione.
L'anno successivo, il 7 ottobre, una violenta tromba d'aria colì Cibali superiore, Borgo superiore e Ognina, zone costiere di Catania, distruggendo le casupole e danneggiando seriamente anche le case più resistenti, provando diversi morti e feriti. Per cinque giorni il Dusmet attraversò quel disastro portando aiuto, indumenti e viveri.
Nel settembre 1885 un altro terremoto colì le zone di Nicolosi e, il 25 settembre, il Dusmet si recò subito nel paese etneo per soccorrere la popolazione con tutte le forze e le possibilità che aveva: "Di giorno e di notte, non curando né dispendi, né salute, si moltiplicò dappertutto, ov'era più lacrimevole il disastro, fornì di case improvvisate i fuggiaschi, soggiornò tra i dolorosi e gli sgomentati, fino a che il pericolo fu scongiurato, e ciascuno poté riparare ai suoi danni" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 238). Proprio mentre era a soccorrere i terremotati una nuova epidemia di colera, stavolta breve, colpiva la città di Catania, e il Dusmet accorreva a soccorrere anche ai poveri ammalati.
Nel maggio del 1886 si verificò una delle più lunghe e preoccupanti eruzioni dell'Etna, che, ancora una volta, minacciava l'abitato di Nicolosi. Per diverse settimane tutta la popolazione rimase in fermento per il pericolo della lava, che continuava minacciosa a percorrere la via verso il paese. Il Dusmet si recò subito a Nicolosi per accertarsi della situazione: qui pernottava fra gli sfollati, celebrava in una capanna-cappella e stava tutto il giorno fra la popolazione impaurita. Vedendo che il vulcano non accennava a diminuire la sua furia, tornò a Catania e, il 24 maggio, salì in processione con il velo taumaturgico di sant'Agata, invocando la martire catanese affinché aiutasse quella popolazione, fermando, com'era già accaduto precedentemente, il vulcano.
Giunto agli Altarelli, un'edicola nei pressi di Nicolosi, avendo di fronte l'alta sciara della lava viva, si inginocchiò e pose per terra la reliquia, pregando. Poi, rivolto alla popolazione, disse: "Figli miei, in quest'ora solenne Nicolosi è in preda allo spavento e al terrore. Vi esorto a pregare fervorosamente la nostra eroina sant'Agata. Non temete! Ho tanta fiudcia in sant'Agata, che Nicolosi sarà salvo".
Il 29 già tutta la popolazione iniziò ad allontanarsi dal paese, ormai dato per perduto: erano state svuotate le case, divelte le porte e le finestre e qualunque altra cosa si potesse portar via. Ma, appena quattro giorni dopo, mentre il Dusmet si trovava poggiato al muro della chiesa per riposare, dopo aver assistito i pochi rimasti, ecco una voce che annunciava il miracolo: "A soli 327 metri dalle prime case, in quel punto ove monsignore arcivescovo si era fermato col Velo prodigioso di sant'Agata, s'arrestò la lava trattenuta dalla mano di Dio, là dove naturalmente non poteva fermarsi" (Amadio, Il cardinale Dusmet, p. 273), cioè su un declivio. E così il 13 giugno tutta la popolazione, dietro i simulacri dei santi patroni, faceva ritorno al paese.
La serie delle sciagure si chiuse nel 1887, quando agli inizi di marzo riapparve il colera. Stavolta, ormai esperto, l'arcivescovo curò la formazione diretta di alcuni sacerdoti e laici per l'assistenza degli ammalati, ed egli stesso non mancò di dare per primo l'esempio, recandosi ogni giorno al lazzaretto e presso i poveri ammalati. L'epidemia durò sino a novembre: il 29, a spese del Dusmet, furono celebrati i funerali delle vittime del morbo; in tutto, durante l'epidemia, aveva speso 75.000 lire.
E, per quanto gli fu possibile, inviò aiuti anche ad altre diocesi colpite da sventure, come nel 1882 per le inondazioni avvenute in alta Italia, per il terremoto di Ischia e Casamicciola, per il colera del 1884 a Napoli, Spezia, Busca, in Spagna, nel 1885 per la stessa epidemia che colpì Palermo, oltre a diverse occasioni in cui aiutò le Congregazioni religiose da poco nate e bisgnose di aiuti (come fece spesso con i Salesiano di don Bosco, n.d.r.).
Per le sue opere di carità il Dusmet ricevette due medaglie d'oro da parte del Governo e una da parte del Santo Padre. Ma il segno di gratitudine più importante fu senz'altro la porpora cardinalizia, che gli fu conferita da Leone XIII al termine dell'impegno profuso dal Dusmet per la riapertura del Collegio Sant'Anselmo, in previsione della confederazione di tutte le Congregazioni benedettine.
Testo tratto da Giovanni Carovello Grasta, La nostra bandiera è la concordia. L'ecclesiologia del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, arcivescovo di Catania (1867-1894), tesi di Licenza anno 2017-2018, pp. 12-17.
E' vietata la pubblicazione del testo o di parte di esso, per ottenere il permesso gratuito si può inoltrare richiesta all'amministratore del sito, specificando la motivazione e il luogo della pubblicazione.
Per approfondire si consiglia:
- Gaetano Amadio, Il cardinale Dusmet, Catania 1928.
- Gaetano Zito, La cura pastorale a Catania negli anni dell'episcopato Dusmet (1867-1894), Catania 1987.