La Carità del Beato Giuseppe Benedetto Dusmet
Il Beato Giuseppe Benedetto Dusmet fu un pastore profetico, rimanendo, infatti, ben saldo nel suo tempo, con tutte le positività e le negatività che quell’epoca portò con sé (grandi stravolgimenti politici ed ecclesiastici in seguito all’unificazione d’Italia), si può ben notare nel suo operato una “modernità” d’azione, che nasce dalla profonda e orante meditazione che egli faceva sulle vicende che viveva e che vivevano i suoi figli.
L’esempio della famiglia
In siciliano si dice: “L’arvulu pecca e a rama arricivi” per indicare che le colpe dei padri ricadono sui figli, se questo non è vero, è vero, tuttavia, il contrario, perché il Signore ci assicura abbondanti benedizioni per chi compie il bene e per la sua discendenza all’infinito. È, dunque, alla famiglia del beato cardinale Dusmet, che dobbiamo guardare se vogliamo trovare l’origine di questa benedizione che abbracciò non solo Catania, ma anche la Sicilia, l’Ordine Benedettino e l’intera Chiesa. Il Dusmet proveniva da una famiglia nobile e ricca, ma soprattutto pia e caritatevole. La madre, specialmente, era una donna di grande carità, e Casa Dusmet era diventata meta obbligata dei poveri della città, che lì potevano sempre trovare un pezzo di pane o qualcosa di caldo. Il piccolo Dusmet, così, nei primi anni della sua vita, crebbe all’ombra di questa esile ma forte donna, seguendola e imitandola nella carità, era per lui una grande gioia offrire ai poveri del cibo, e spesso correva per raggiungere prima di tutti la finestra da cui la bianca manina offriva una pagnotta alle rugose mani di qualche povero vecchio.
Carità che cresce
Come ogni buona virtù, anche la Carità si coltiva, come una bella pianta che, da germoglio, giorno dopo giorno, diventa rigogliosa e ricca di frutti. Così il beato Dusmet, lasciata la casa paterna all’età di 5 anni, per andare a studiare nell’Abbazia di San Martino delle Scale, imparò in quel luogo che la carità non è soltanto l’obolo ai poveri, ma assume mille volti, spesso meno facili, meno gradevoli della semplice elemosina. Nella comunità monastica egli scopre che carità è anche servire i fratelli, crescere insieme, percorrere la via della santità, aiutando chi cade, sorreggendo chi vacilla, aspettando chi rimane indietro. E in monastero i superiori vedono che in Dusmet c’è qualcosa di speciale, non è un monaco come gli altri, la sua grandezza spirituale, accompagnata da una curiosa intelligenza, fa di lui un vero esempio, già nella gioventù. Dusmet è amato e stimato da confratelli e superiori, perché, come scrive san Benedetto nella Regola, nulla antepone all’Amore di Cristo, e ha già capito che è nell’Amore di Cristo che deve amare i fratelli.
Carità di monaco
Una volta divenuto superiore diviene evidente a tutti la grandezza di una carità che prima, per delicatezza d’animo, il Dusmet lasciava ricadere sui superiori, come se fosse una loro iniziativa. Divenuto Priore dell’Abbazia di Santa Flavia in Caltanissetta (1852-1858) non c’è più un superiore da “incolpare” per la carità che compie, adesso è chiaro che è opera sua. A Caltanissetta, così, matura quella consapevolezza che la sua missione è la Carità.
Carità monastica nei confronti dei confratelli, ai quali dona, con l’esempio prima ancora che con le parole, una regola di vita, così paterna, così amorevole, che non si può non seguirla. Egli vuole che i confratelli camminino insieme a lui nella santificazione personale, e i suoi confratelli, prima sbandati, tornano sulla retta via e l’Abbazia di Santa Flavia torna ad essere cuore spirituale della città.
Carità diocesana nei confronti del primo vescovo, mons. Stromillo, che chiama il Dusmet al suo fianco per farsi aiutare nel porre le fondamenta della neonata diocesi di Caltanissetta. Dusmet ascolta, consiglia, agisce in prima persona quando Stromillo è impossibilitato per la malattia. È, di fatto, il suo Vicario, e i sacerdoti riconoscono in lui quell’autorevolezza che è necessaria al pastore di una diocesi nuova e problematica. Diviene amico, fratello, padre per molti sacerdoti, che vedono in lui quell’ideale sacerdotale a cui tendere. Accompagna mons. Stromillo sino alla fine, sino all’ultimo respiro.
Ma parlando di Dusmet non si può non parlare della Carità verso i poveri e gli ammalati, eccolo allora al portone dell’Abbazia di Santa Flavia, pronto ad accogliere i tanti poveri che bussano, a dar loro del cibo, a confortarli, a benedirli. Eccolo, nel mese di novembre, mentre distribuisce, quasi come benedizione, il prezioso olio, che il monastero ricava dall’uliveto che si trovava nell’attua Via Card. Dusmet. Eccolo correre per le vie della città durante l’epidemia di colera del 1854-55: si vede entrare nelle case degli ammalati, persino nelle più luride e abbandonate: nessuno deve morire solo, per tutti ha una carezza, una parola paterna, e tutti riconquista al Signore, inducendoli a confessarsi e ricevere i sacramenti. Non teme nulla, anzi è lui stesso che entra nelle case dove la situazione è più critica, più pericolosa, lasciando agli altri sacerdoti, che seguono il suo esempio, i casi meno complicati.
Carità di vescovo
È senz’altro a Catania, però, che questa sua Carità brillò in maniera accecante, perché lì rimase per 27 anni, sempre fra la sua gente, sempre pronto a soccorrere i poveri.
Nella prima lettera pastorale inviata ai catanesi così scriveva: “Sin a quando avremo un panettello, noi lo divideremo col povero. La nostra porta per ogni misero che soffra sarà sempre aperta. L’orario che ordineremo affiggersi all’ingresso dell’Episcopio, sarà che gli indigenti a preferenza entrino in tutte le ore. Un soccorso ed ove i mezzi ci manchino, un conforto, una parola d’affetto l’avranno tutti, e sempre”.
Queste parole furono come un programma, che il Dusmet seguì letteralmente.
Le testimonianze sono concordi nell’affermare che fu un vescovo di strada, non rimase chiuso in Episcopio, ma quotidianamente, a piedi, peregrinava per le vie di Catania raggiungendo i due luoghi di preghiera che preferiva: le chiese dove era esposto il Santissimo Sacramento e le case dei poveri.
“Egli – racconta un testimone – andava per le vie nella sublime semplicità d’un saio nero… andava nella angelica maestà della persona alta, bella, radiosa come quella di san Benedetto… e l’aria purificavasi allo sfiorar della sua tunica”.
Se era necessario prendeva le carrozzelle più umili o l’omnibus (antenato dell’autobus), perché non voleva spendere troppi soldi per spostarsi con carrozze sontuose: preferiva donare quei soldi ai bisognosi. Ogni giorni passava per il porto, dove la lunga fila di carri, dove venivano caricate e scaricate le merci, si fermava al suo arrivo e riverente attendeva il suo passaggio. Fra gli scaricatori, i garzoni e gli altri presenti il Dusmet passava come un padre, aveva per tutti una parola, conosceva i nomi di tutti quanti, conosceva i bisogni di tutti e chiedeva a ciascuno se avesse qualche necessità, se era andato bene quell’affare che aveva in sospeso, se la famiglia stava bene. Quegli uomini, che sono di proverbiale rozzezza, divenivano così, giorno dopo giorno, figli riverenti di quel padre venerabile. E il Dusmet non mancava di ricambiare la loro devozione con amore grande, prodigandosi affinché potessero ricevere non solo gli aiuti materiali, di cui abbisognavano, ma anche l’istruzione religiosa e culturale, a cui lui stesso, quando poteva, si dedicava.
Carità verso gli ammalati
Un cuore così paterno, anzi materno, non poteva che piegarsi verso le necessità degli ammalati, specialmente dei più poveri e abbandonati. Per tal motivo la quotidiana “passeggiata” del Dusmet finiva per diventare un pellegrinaggio da un ammalato all’altro. Senza paura e senza repulsione, entrava nelle case di coloro che erano affetti dal colera, dal vaiolo, dalla tisi, e che spesso si trovavano in condizioni pietose, perché abbandonati finanche dai parenti. Si avvicinava con paterna premura, pregava con loro, portava loro le medicine e se questi non si fidavano, temendo che potessero essere veleni, non disdegnava di prendere i cucchiai sporchi che trovava in casa per prendere lui stesso il medicinale e mostrare che non c’era d’aver paura. Quando li trovava sporchi, spesso coricati fra vomito e feci, si rimboccava subito le maniche della logora tunica, si caricava i malati sulle spalle, li lavava, puliva i loro letti, le loro case. E ai collaboratori che gli consigliavano di non entrare in certe catapecchie luride, egli rispondeva: “Se vi entra il Signore, perché dovrei indietreggiare io?”.
Si recava anche nell’ospedale cittadino, dove i malati contagiosi erano isolati e i più gravi non ricevevano neanche le cure, ma venivano lasciati a morire in qualche scantinato. Così accadde per un giovane, malato di tisi, che per i frequenti vomiti (che potevano contagiare gli assistenti) era stato lasciato solo ad attendere la fine. Il Dusmet lo seppe, si recò al suo capezzale, lo trovò in un letto intriso di feci e di vomito. Chiamò una suora e chiese che il moribondo venisse lavato e messo su un letto pulito, ma non si trovava nessuno che avesse il coraggio di prenderlo, per paura del contagio. Il Dusmet fu pronto a trovare la soluzione, fece chiamare due infermieri e disse loro: “Voi prendetelo dai piedi, io lo alzerò dalle spalle”, così fece e, appena fu alzato, il ragazzo vomitò sul saio del beato Cardinale, che non si scompose affatto. Lo lavò, lo pose su un letto pulito e lo accompagnò all’incontro con il Signore, avvenuto qualche ora dopo.
Carità intelligente
Camminando per le strade della città, veniva spesso fermato da poveri, da persone che avevano bisogno di aiuto spirituale, da chi veniva a cercare aiuto per qualche ammalato. Ma poteva anche scovare lui stesso quelle situazioni, di cui nessuno si occupava, quelle povertà di cui gli stessi bisognosi avevano vergogna. Visitava le case, guardava negli occhi la gente, dava loro non solo soldi e pane, dava se stesso, la sua carezza, la sua parola paterna. “Fatevi santi – ripeteva spesso mentre girava per la città –, Viva Gesù!”. Camminando, visitando, ascoltando poteva anche capire le reali condizioni delle famiglie, di chi chiedeva aiuto, era un modo per evitare che la carità fosse sprecata e oltraggiata dagli approfittatori, che non mancavano allora come oggi. Il Dusmet sapeva che l’elemosina data a una persona disonesta, che non ne ha bisogno, è un’elemosina tolta a chi veramente ne necessita. E così si informava, mandava persone di sua fiducia, dove non poteva arrivare lui, e la sua carità raggiungeva luoghi lontani, ma senza mai sbagliare.
La forza della Carità
Il grande amore che egli aveva per tutti lo rese potente, ma non di quella potenza umana e fugace, ma della potenza della carità. Per tal motivo un giorno, uscendo dalla chiesa, sentì delle grida e accorse per vedere cosa stava accadendo. Trovò una piccola folla attorno a due giovani che si affrontavano armati di coltello, senza che nessuno riuscisse a dividerli, neanche con lo sparo di un colpo di pistola. Nella concitazione del momento, il Dusmet si affrettò verso di loro e, essendo ancora abbastanza lontano, alzò le mani al Cielo e gridò: “Fermi”. In quello stesso istante i due giovani caddero a terra come se fossero stati colpiti da un bello schiaffone, e rimasero a terra immobili finché il Dusmet si avvicinò a loro e li alzò da terra, prima l’uno e poi l’altro; tolse i coltelli dalle loro mani e li consegnò ai gendarmi, che nel frattempo erano giunti nella piazza. Alla vista di quel miracolo molte persone, prima atee e anticlericali, si convertirono.
Con la forza di questo amore il Dusmet riuscì a conquistare molti cuori al Signore, egli fu amato e stimato da tutti, cattolici, protestanti, massoni, anticlericali, atei, non potevano che riconoscere in lui qualcosa di straordinario, che andava al di là dell’autorevolezza umana.
L’Episcopio casa del popolo
Come aveva scritto nella sua prima lettera pastorale, la porta dell’Episcopio era sempre aperta, soprattutto per i poveri, e se non era aperta c’era sempre qualcuno pronto ad aprire. Lui stesso, molte sere, apriva il portone, invitando l’ospite a far silenzio, perché il portinaio stava dormendo. E diceva ai suoi collaboratori di ricevere sempre, anche fuori orario.
Spesso lo venivano a chiamare, anche a notte tarda, per cresimare qualche piccolo moribondo, e lui non si negava mai. Così ad esempio una sera una mano bussò al portone dell’Episcopio, chi bussava restò meravigliato nel vedere che chi apriva era lo stesso Cardinale: “Fa’ silenzio – disse portandosi il dito sulla bocca – il portinaio sta dormendo”. Il Dusmet sentì cosa aveva da chiedere, quella persona raccontò di una mamma ammalata, che chiedeva che si cresimasse il figlioletto moribondo. Dusmet prese il Crisma e la stola e, sotto la pioggia, si recò nella povera casa. Cresimò il bambino, confortò la madre, poi, di nascosto, mise sotto una tazza, che era accanto al letto, 50 lire.
Un’altra volta fu chiamato perché un uomo, con una grave polmonite, si avviava alla morte senza che si potesse convincere a mettersi in pace con Dio. Il Cardinale accorse, entrò nella casa, parlò con quell’uomo, arrabbiato con tutti, anche con Dio, per la sua condizione. “Fa’ pace con Dio – gli disse – e troverai la sanità”. L’uomo si confessò, chiese perdono dei suoi peccati, e, come aveva predetto il Dusmet, guarì.
Molti poveri venivano a bussare all’Episcopio, dove il Dusmet teneva delle buste pronte con dei soldi dentro, due grandi armadi con biancheria, e legumi cotti per il pranzo. Spesso, però, soldi e cibo finivano già durante la mattinata, per cui a mezzogiorno non vi era più nulla da dare ai poveri. Ma anche a quell’ora qualcuno bussava, e i collaboratori restavano in imbarazzo, perché sapevano che se avessero mandato qualcuno indietro, il Dusmet li avrebbe rimproverati. Egli, infatti, non voleva che alcuno andasse via a mani vuote. Se stava mangiando dava il suo stesso pranzo (un piatto di pasta o delle uova), e quando gli si faceva presente che così non avrebbe pranzato egli diceva: “Io domani potrò mangiarne di nuovo, ma quel povero forse non ne vedrà mai più”. Guardando le fotografie dall’elezione all’episcopato alla morte, si nota chiaramente come da uomo robusto e forte, egli divenne, a causa del suo darsi tutto ai bisognosi, sempre più magro e macilento.
Carità universale
L’unica preferenza del Dusmet era per i poveri e gli ammalati, per il resto non faceva alcuna differenza. Nonostante i suoi collaboratori storcessero il naso, egli faceva la carità a tutti, compresi i protestanti e gli anticlericali, che andavano a chiedere il suo aiuto, dopo averlo attaccato con comizi e articoli sui giornali. “Anche loro – diceva – sono figli di Dio”.
Una volta vi era una donna che, caduta in disgrazia dopo la morte del marito, e avendo cinque figli, si prostituiva per guadagnare qualcosa. Era conosciuta in città, e anche i collaboratori del Dusmet sapevano chi era, per cui ella aveva più volte provato a entrare in Episcopio per chiedere aiuto, ma era sempre stata cacciata via. Una volta, mentre lei era alla porta, il Dusmet si trovò a passare, “Cosa vuole quella donna?” chiese, ma gli fu risposto che era una donna di malaffare ed era meglio non averci a che fare. Il Dusmet la chiamò, le parlò paternamente, la aiutò. In breve la donna lasciò la sua vita di prima, fu presa come governante in una buona famiglia, i figli furono educati nei migliori collegi, due divennero sacerdoti. Questa bella famiglia fu in prima fila quando il Dusmet lasciò questa terra, e lo pianse come un padre, per la grande Carità che aveva fatto a tutti loro.
Un’altra volta un’attrice d’operetta, che si concedeva in spettacoli licenziosi, scommise che avrebbe fatto cadere, con la sua bellezza, persino il Cardinale. Si presentò, quindi, in Episcopio, dove il segretario del Dusmet, sapendo della scommessa, non voleva farla entrare. Dusmet la vide da lontano, chiese cosa stava succedendo, e la ricevette. La donna uscì piangente dal colloquio avuto con il Cardinale, profondamente addolorata per i suoi peccati. Lasciò il lavoro ed entrò presso una congregazione di suore missionarie, dove prese il nome di Suor Benedetta. E, dopo tanti anni passati in missione, rientrando in Italia, andava spesso sulla tomba del Cardinale Dusmet, a rendergli grazie.
Carità profetica
Il Dusmet fu profetico nella Carità, istituendo a Catania numerose iniziative, volte ad aiutare i più bisognosi.
Fra le altre cose istituì il Dormitorio San Giuseppe, dove i senzatetto trovavano un letto, biancheria pulita e poteva dormire in un luogo caldo; l’Opera di assistenza per i poveri infermi a domicilio, che si occupava degli ammalati indigenti; Asilo di Sant’Agata, dove venivano ospitati gli anziani soli e non autosufficienti; il Guardaroba dei poveri, che raccoglieva indumenti e biancheria per i bisognosi. Chiamò anche diverse congregazioni religiose, fra cui i salesiani, per l’istruzione e l’assistenza ai bambini e ai giovani.
Carità sino alla fine
Un giorno, affacciato al balcone dell’Episcopio, il Dusmet vide che per strada un povero cercava di pulire per quanto potesse un vecchio cencio che usava per coprirsi. Entrò in camera e prese dall’armadio due sue camicie e le lanciò a quell’uomo. Qualche tempo dopo lo vide nuovamente nelle stesse condizioni di prima, prese l’ultima camicia che gli era rimasta e la lanciò nuovamente a quell’uomo, raccomandandosi, stavolta, che ne avesse più cura. Don Santo, uno dei segretari, vedendo che non vi erano più camicie nell’armadio, girava disperato per l’Episcopio gridando che avrebbe scovato e cacciato via il ladro. Lo sentì il Dusmet e chiese: “Che succede?” e don Santo disse: “Qualcuno ha rubato le vostre camicie, bisogna trovare chi è e cacciarlo”. “Allora cacciate me – rispose il Dusmet – perché sono stato io”.
Il Dusmet morì il 4 aprile 1894, dopo alcuni giorni di agonia. Giunto da Montecassino, il cugino, l’Abate Nicola d’Orgemont, vide le pietose condizioni del letto del Cardinale e se ne lamentò con il segretario: “Possibile – diceva – che un uomo così venerando abbia della biancheria vecchia e strappata!”. Il segretario spiegò che poco tempo prima aveva dato quella poca biancheria che gli rimaneva a una persona, che aveva perso tutto nell’incendio della propria casa. Fu la famiglia di un sacerdote che fornì la biancheria necessaria in quei giorni dolorosi per tutta Catania. Non volendo far qualcosa senza il suo permesso, don Luigi, il suo segretario di sempre, usò anche uno stratagemma: “Eminenza – disse –, c’è un povero che necessita di medicine perché molto ammalato”, il Dusmet senza esitare rispose: “Subito, Luigi, provvedi subito al bisogno”. Poco dopo tornò con le medicine e il Dusmet gli disse: “Bravo, Luigi, portale al povero ammalato” e il segretario rispose: “Sono già giunte al povero, che siete voi”.
Poco prima di morire chiamò il segretario: “Luigi – disse –, vedi quel povero vestito di bianco? Dagli qualcosa”. Era forse Cristo, che egli aveva amato e servito nei poveri per tutta la vita, che veniva ora a visitarlo nel momento della sua povertà.
Alla sua morte tutta la Sicilia, l’Ordine Benedettino, la Chiesa intera pianse la perdita di un uomo così grande, in una poesia scritta in siciliano, fra l’altro si disse di lui:
Lu populu l'amava immensamenti,
e mai si scurdirà di lu so nomu,
pri li poviri è luttu eternamenti
la morti inaspittata di tant'omu,
ma anchi ntra ddi lochi certamenti
sarà di tutti prutitturi e comu!
La so' prighiera sarà sempri eguali,
sarà sempri lu nostru Cardinali!
Il Beato Giuseppe Benedetto Dusmet fu un pastore profetico, rimanendo, infatti, ben saldo nel suo tempo, con tutte le positività e le negatività che quell’epoca portò con sé (grandi stravolgimenti politici ed ecclesiastici in seguito all’unificazione d’Italia), si può ben notare nel suo operato una “modernità” d’azione, che nasce dalla profonda e orante meditazione che egli faceva sulle vicende che viveva e che vivevano i suoi figli.
L’esempio della famiglia
In siciliano si dice: “L’arvulu pecca e a rama arricivi” per indicare che le colpe dei padri ricadono sui figli, se questo non è vero, è vero, tuttavia, il contrario, perché il Signore ci assicura abbondanti benedizioni per chi compie il bene e per la sua discendenza all’infinito. È, dunque, alla famiglia del beato cardinale Dusmet, che dobbiamo guardare se vogliamo trovare l’origine di questa benedizione che abbracciò non solo Catania, ma anche la Sicilia, l’Ordine Benedettino e l’intera Chiesa. Il Dusmet proveniva da una famiglia nobile e ricca, ma soprattutto pia e caritatevole. La madre, specialmente, era una donna di grande carità, e Casa Dusmet era diventata meta obbligata dei poveri della città, che lì potevano sempre trovare un pezzo di pane o qualcosa di caldo. Il piccolo Dusmet, così, nei primi anni della sua vita, crebbe all’ombra di questa esile ma forte donna, seguendola e imitandola nella carità, era per lui una grande gioia offrire ai poveri del cibo, e spesso correva per raggiungere prima di tutti la finestra da cui la bianca manina offriva una pagnotta alle rugose mani di qualche povero vecchio.
Carità che cresce
Come ogni buona virtù, anche la Carità si coltiva, come una bella pianta che, da germoglio, giorno dopo giorno, diventa rigogliosa e ricca di frutti. Così il beato Dusmet, lasciata la casa paterna all’età di 5 anni, per andare a studiare nell’Abbazia di San Martino delle Scale, imparò in quel luogo che la carità non è soltanto l’obolo ai poveri, ma assume mille volti, spesso meno facili, meno gradevoli della semplice elemosina. Nella comunità monastica egli scopre che carità è anche servire i fratelli, crescere insieme, percorrere la via della santità, aiutando chi cade, sorreggendo chi vacilla, aspettando chi rimane indietro. E in monastero i superiori vedono che in Dusmet c’è qualcosa di speciale, non è un monaco come gli altri, la sua grandezza spirituale, accompagnata da una curiosa intelligenza, fa di lui un vero esempio, già nella gioventù. Dusmet è amato e stimato da confratelli e superiori, perché, come scrive san Benedetto nella Regola, nulla antepone all’Amore di Cristo, e ha già capito che è nell’Amore di Cristo che deve amare i fratelli.
Carità di monaco
Una volta divenuto superiore diviene evidente a tutti la grandezza di una carità che prima, per delicatezza d’animo, il Dusmet lasciava ricadere sui superiori, come se fosse una loro iniziativa. Divenuto Priore dell’Abbazia di Santa Flavia in Caltanissetta (1852-1858) non c’è più un superiore da “incolpare” per la carità che compie, adesso è chiaro che è opera sua. A Caltanissetta, così, matura quella consapevolezza che la sua missione è la Carità.
Carità monastica nei confronti dei confratelli, ai quali dona, con l’esempio prima ancora che con le parole, una regola di vita, così paterna, così amorevole, che non si può non seguirla. Egli vuole che i confratelli camminino insieme a lui nella santificazione personale, e i suoi confratelli, prima sbandati, tornano sulla retta via e l’Abbazia di Santa Flavia torna ad essere cuore spirituale della città.
Carità diocesana nei confronti del primo vescovo, mons. Stromillo, che chiama il Dusmet al suo fianco per farsi aiutare nel porre le fondamenta della neonata diocesi di Caltanissetta. Dusmet ascolta, consiglia, agisce in prima persona quando Stromillo è impossibilitato per la malattia. È, di fatto, il suo Vicario, e i sacerdoti riconoscono in lui quell’autorevolezza che è necessaria al pastore di una diocesi nuova e problematica. Diviene amico, fratello, padre per molti sacerdoti, che vedono in lui quell’ideale sacerdotale a cui tendere. Accompagna mons. Stromillo sino alla fine, sino all’ultimo respiro.
Ma parlando di Dusmet non si può non parlare della Carità verso i poveri e gli ammalati, eccolo allora al portone dell’Abbazia di Santa Flavia, pronto ad accogliere i tanti poveri che bussano, a dar loro del cibo, a confortarli, a benedirli. Eccolo, nel mese di novembre, mentre distribuisce, quasi come benedizione, il prezioso olio, che il monastero ricava dall’uliveto che si trovava nell’attua Via Card. Dusmet. Eccolo correre per le vie della città durante l’epidemia di colera del 1854-55: si vede entrare nelle case degli ammalati, persino nelle più luride e abbandonate: nessuno deve morire solo, per tutti ha una carezza, una parola paterna, e tutti riconquista al Signore, inducendoli a confessarsi e ricevere i sacramenti. Non teme nulla, anzi è lui stesso che entra nelle case dove la situazione è più critica, più pericolosa, lasciando agli altri sacerdoti, che seguono il suo esempio, i casi meno complicati.
Carità di vescovo
È senz’altro a Catania, però, che questa sua Carità brillò in maniera accecante, perché lì rimase per 27 anni, sempre fra la sua gente, sempre pronto a soccorrere i poveri.
Nella prima lettera pastorale inviata ai catanesi così scriveva: “Sin a quando avremo un panettello, noi lo divideremo col povero. La nostra porta per ogni misero che soffra sarà sempre aperta. L’orario che ordineremo affiggersi all’ingresso dell’Episcopio, sarà che gli indigenti a preferenza entrino in tutte le ore. Un soccorso ed ove i mezzi ci manchino, un conforto, una parola d’affetto l’avranno tutti, e sempre”.
Queste parole furono come un programma, che il Dusmet seguì letteralmente.
Le testimonianze sono concordi nell’affermare che fu un vescovo di strada, non rimase chiuso in Episcopio, ma quotidianamente, a piedi, peregrinava per le vie di Catania raggiungendo i due luoghi di preghiera che preferiva: le chiese dove era esposto il Santissimo Sacramento e le case dei poveri.
“Egli – racconta un testimone – andava per le vie nella sublime semplicità d’un saio nero… andava nella angelica maestà della persona alta, bella, radiosa come quella di san Benedetto… e l’aria purificavasi allo sfiorar della sua tunica”.
Se era necessario prendeva le carrozzelle più umili o l’omnibus (antenato dell’autobus), perché non voleva spendere troppi soldi per spostarsi con carrozze sontuose: preferiva donare quei soldi ai bisognosi. Ogni giorni passava per il porto, dove la lunga fila di carri, dove venivano caricate e scaricate le merci, si fermava al suo arrivo e riverente attendeva il suo passaggio. Fra gli scaricatori, i garzoni e gli altri presenti il Dusmet passava come un padre, aveva per tutti una parola, conosceva i nomi di tutti quanti, conosceva i bisogni di tutti e chiedeva a ciascuno se avesse qualche necessità, se era andato bene quell’affare che aveva in sospeso, se la famiglia stava bene. Quegli uomini, che sono di proverbiale rozzezza, divenivano così, giorno dopo giorno, figli riverenti di quel padre venerabile. E il Dusmet non mancava di ricambiare la loro devozione con amore grande, prodigandosi affinché potessero ricevere non solo gli aiuti materiali, di cui abbisognavano, ma anche l’istruzione religiosa e culturale, a cui lui stesso, quando poteva, si dedicava.
Carità verso gli ammalati
Un cuore così paterno, anzi materno, non poteva che piegarsi verso le necessità degli ammalati, specialmente dei più poveri e abbandonati. Per tal motivo la quotidiana “passeggiata” del Dusmet finiva per diventare un pellegrinaggio da un ammalato all’altro. Senza paura e senza repulsione, entrava nelle case di coloro che erano affetti dal colera, dal vaiolo, dalla tisi, e che spesso si trovavano in condizioni pietose, perché abbandonati finanche dai parenti. Si avvicinava con paterna premura, pregava con loro, portava loro le medicine e se questi non si fidavano, temendo che potessero essere veleni, non disdegnava di prendere i cucchiai sporchi che trovava in casa per prendere lui stesso il medicinale e mostrare che non c’era d’aver paura. Quando li trovava sporchi, spesso coricati fra vomito e feci, si rimboccava subito le maniche della logora tunica, si caricava i malati sulle spalle, li lavava, puliva i loro letti, le loro case. E ai collaboratori che gli consigliavano di non entrare in certe catapecchie luride, egli rispondeva: “Se vi entra il Signore, perché dovrei indietreggiare io?”.
Si recava anche nell’ospedale cittadino, dove i malati contagiosi erano isolati e i più gravi non ricevevano neanche le cure, ma venivano lasciati a morire in qualche scantinato. Così accadde per un giovane, malato di tisi, che per i frequenti vomiti (che potevano contagiare gli assistenti) era stato lasciato solo ad attendere la fine. Il Dusmet lo seppe, si recò al suo capezzale, lo trovò in un letto intriso di feci e di vomito. Chiamò una suora e chiese che il moribondo venisse lavato e messo su un letto pulito, ma non si trovava nessuno che avesse il coraggio di prenderlo, per paura del contagio. Il Dusmet fu pronto a trovare la soluzione, fece chiamare due infermieri e disse loro: “Voi prendetelo dai piedi, io lo alzerò dalle spalle”, così fece e, appena fu alzato, il ragazzo vomitò sul saio del beato Cardinale, che non si scompose affatto. Lo lavò, lo pose su un letto pulito e lo accompagnò all’incontro con il Signore, avvenuto qualche ora dopo.
Carità intelligente
Camminando per le strade della città, veniva spesso fermato da poveri, da persone che avevano bisogno di aiuto spirituale, da chi veniva a cercare aiuto per qualche ammalato. Ma poteva anche scovare lui stesso quelle situazioni, di cui nessuno si occupava, quelle povertà di cui gli stessi bisognosi avevano vergogna. Visitava le case, guardava negli occhi la gente, dava loro non solo soldi e pane, dava se stesso, la sua carezza, la sua parola paterna. “Fatevi santi – ripeteva spesso mentre girava per la città –, Viva Gesù!”. Camminando, visitando, ascoltando poteva anche capire le reali condizioni delle famiglie, di chi chiedeva aiuto, era un modo per evitare che la carità fosse sprecata e oltraggiata dagli approfittatori, che non mancavano allora come oggi. Il Dusmet sapeva che l’elemosina data a una persona disonesta, che non ne ha bisogno, è un’elemosina tolta a chi veramente ne necessita. E così si informava, mandava persone di sua fiducia, dove non poteva arrivare lui, e la sua carità raggiungeva luoghi lontani, ma senza mai sbagliare.
La forza della Carità
Il grande amore che egli aveva per tutti lo rese potente, ma non di quella potenza umana e fugace, ma della potenza della carità. Per tal motivo un giorno, uscendo dalla chiesa, sentì delle grida e accorse per vedere cosa stava accadendo. Trovò una piccola folla attorno a due giovani che si affrontavano armati di coltello, senza che nessuno riuscisse a dividerli, neanche con lo sparo di un colpo di pistola. Nella concitazione del momento, il Dusmet si affrettò verso di loro e, essendo ancora abbastanza lontano, alzò le mani al Cielo e gridò: “Fermi”. In quello stesso istante i due giovani caddero a terra come se fossero stati colpiti da un bello schiaffone, e rimasero a terra immobili finché il Dusmet si avvicinò a loro e li alzò da terra, prima l’uno e poi l’altro; tolse i coltelli dalle loro mani e li consegnò ai gendarmi, che nel frattempo erano giunti nella piazza. Alla vista di quel miracolo molte persone, prima atee e anticlericali, si convertirono.
Con la forza di questo amore il Dusmet riuscì a conquistare molti cuori al Signore, egli fu amato e stimato da tutti, cattolici, protestanti, massoni, anticlericali, atei, non potevano che riconoscere in lui qualcosa di straordinario, che andava al di là dell’autorevolezza umana.
L’Episcopio casa del popolo
Come aveva scritto nella sua prima lettera pastorale, la porta dell’Episcopio era sempre aperta, soprattutto per i poveri, e se non era aperta c’era sempre qualcuno pronto ad aprire. Lui stesso, molte sere, apriva il portone, invitando l’ospite a far silenzio, perché il portinaio stava dormendo. E diceva ai suoi collaboratori di ricevere sempre, anche fuori orario.
Spesso lo venivano a chiamare, anche a notte tarda, per cresimare qualche piccolo moribondo, e lui non si negava mai. Così ad esempio una sera una mano bussò al portone dell’Episcopio, chi bussava restò meravigliato nel vedere che chi apriva era lo stesso Cardinale: “Fa’ silenzio – disse portandosi il dito sulla bocca – il portinaio sta dormendo”. Il Dusmet sentì cosa aveva da chiedere, quella persona raccontò di una mamma ammalata, che chiedeva che si cresimasse il figlioletto moribondo. Dusmet prese il Crisma e la stola e, sotto la pioggia, si recò nella povera casa. Cresimò il bambino, confortò la madre, poi, di nascosto, mise sotto una tazza, che era accanto al letto, 50 lire.
Un’altra volta fu chiamato perché un uomo, con una grave polmonite, si avviava alla morte senza che si potesse convincere a mettersi in pace con Dio. Il Cardinale accorse, entrò nella casa, parlò con quell’uomo, arrabbiato con tutti, anche con Dio, per la sua condizione. “Fa’ pace con Dio – gli disse – e troverai la sanità”. L’uomo si confessò, chiese perdono dei suoi peccati, e, come aveva predetto il Dusmet, guarì.
Molti poveri venivano a bussare all’Episcopio, dove il Dusmet teneva delle buste pronte con dei soldi dentro, due grandi armadi con biancheria, e legumi cotti per il pranzo. Spesso, però, soldi e cibo finivano già durante la mattinata, per cui a mezzogiorno non vi era più nulla da dare ai poveri. Ma anche a quell’ora qualcuno bussava, e i collaboratori restavano in imbarazzo, perché sapevano che se avessero mandato qualcuno indietro, il Dusmet li avrebbe rimproverati. Egli, infatti, non voleva che alcuno andasse via a mani vuote. Se stava mangiando dava il suo stesso pranzo (un piatto di pasta o delle uova), e quando gli si faceva presente che così non avrebbe pranzato egli diceva: “Io domani potrò mangiarne di nuovo, ma quel povero forse non ne vedrà mai più”. Guardando le fotografie dall’elezione all’episcopato alla morte, si nota chiaramente come da uomo robusto e forte, egli divenne, a causa del suo darsi tutto ai bisognosi, sempre più magro e macilento.
Carità universale
L’unica preferenza del Dusmet era per i poveri e gli ammalati, per il resto non faceva alcuna differenza. Nonostante i suoi collaboratori storcessero il naso, egli faceva la carità a tutti, compresi i protestanti e gli anticlericali, che andavano a chiedere il suo aiuto, dopo averlo attaccato con comizi e articoli sui giornali. “Anche loro – diceva – sono figli di Dio”.
Una volta vi era una donna che, caduta in disgrazia dopo la morte del marito, e avendo cinque figli, si prostituiva per guadagnare qualcosa. Era conosciuta in città, e anche i collaboratori del Dusmet sapevano chi era, per cui ella aveva più volte provato a entrare in Episcopio per chiedere aiuto, ma era sempre stata cacciata via. Una volta, mentre lei era alla porta, il Dusmet si trovò a passare, “Cosa vuole quella donna?” chiese, ma gli fu risposto che era una donna di malaffare ed era meglio non averci a che fare. Il Dusmet la chiamò, le parlò paternamente, la aiutò. In breve la donna lasciò la sua vita di prima, fu presa come governante in una buona famiglia, i figli furono educati nei migliori collegi, due divennero sacerdoti. Questa bella famiglia fu in prima fila quando il Dusmet lasciò questa terra, e lo pianse come un padre, per la grande Carità che aveva fatto a tutti loro.
Un’altra volta un’attrice d’operetta, che si concedeva in spettacoli licenziosi, scommise che avrebbe fatto cadere, con la sua bellezza, persino il Cardinale. Si presentò, quindi, in Episcopio, dove il segretario del Dusmet, sapendo della scommessa, non voleva farla entrare. Dusmet la vide da lontano, chiese cosa stava succedendo, e la ricevette. La donna uscì piangente dal colloquio avuto con il Cardinale, profondamente addolorata per i suoi peccati. Lasciò il lavoro ed entrò presso una congregazione di suore missionarie, dove prese il nome di Suor Benedetta. E, dopo tanti anni passati in missione, rientrando in Italia, andava spesso sulla tomba del Cardinale Dusmet, a rendergli grazie.
Carità profetica
Il Dusmet fu profetico nella Carità, istituendo a Catania numerose iniziative, volte ad aiutare i più bisognosi.
Fra le altre cose istituì il Dormitorio San Giuseppe, dove i senzatetto trovavano un letto, biancheria pulita e poteva dormire in un luogo caldo; l’Opera di assistenza per i poveri infermi a domicilio, che si occupava degli ammalati indigenti; Asilo di Sant’Agata, dove venivano ospitati gli anziani soli e non autosufficienti; il Guardaroba dei poveri, che raccoglieva indumenti e biancheria per i bisognosi. Chiamò anche diverse congregazioni religiose, fra cui i salesiani, per l’istruzione e l’assistenza ai bambini e ai giovani.
Carità sino alla fine
Un giorno, affacciato al balcone dell’Episcopio, il Dusmet vide che per strada un povero cercava di pulire per quanto potesse un vecchio cencio che usava per coprirsi. Entrò in camera e prese dall’armadio due sue camicie e le lanciò a quell’uomo. Qualche tempo dopo lo vide nuovamente nelle stesse condizioni di prima, prese l’ultima camicia che gli era rimasta e la lanciò nuovamente a quell’uomo, raccomandandosi, stavolta, che ne avesse più cura. Don Santo, uno dei segretari, vedendo che non vi erano più camicie nell’armadio, girava disperato per l’Episcopio gridando che avrebbe scovato e cacciato via il ladro. Lo sentì il Dusmet e chiese: “Che succede?” e don Santo disse: “Qualcuno ha rubato le vostre camicie, bisogna trovare chi è e cacciarlo”. “Allora cacciate me – rispose il Dusmet – perché sono stato io”.
Il Dusmet morì il 4 aprile 1894, dopo alcuni giorni di agonia. Giunto da Montecassino, il cugino, l’Abate Nicola d’Orgemont, vide le pietose condizioni del letto del Cardinale e se ne lamentò con il segretario: “Possibile – diceva – che un uomo così venerando abbia della biancheria vecchia e strappata!”. Il segretario spiegò che poco tempo prima aveva dato quella poca biancheria che gli rimaneva a una persona, che aveva perso tutto nell’incendio della propria casa. Fu la famiglia di un sacerdote che fornì la biancheria necessaria in quei giorni dolorosi per tutta Catania. Non volendo far qualcosa senza il suo permesso, don Luigi, il suo segretario di sempre, usò anche uno stratagemma: “Eminenza – disse –, c’è un povero che necessita di medicine perché molto ammalato”, il Dusmet senza esitare rispose: “Subito, Luigi, provvedi subito al bisogno”. Poco dopo tornò con le medicine e il Dusmet gli disse: “Bravo, Luigi, portale al povero ammalato” e il segretario rispose: “Sono già giunte al povero, che siete voi”.
Poco prima di morire chiamò il segretario: “Luigi – disse –, vedi quel povero vestito di bianco? Dagli qualcosa”. Era forse Cristo, che egli aveva amato e servito nei poveri per tutta la vita, che veniva ora a visitarlo nel momento della sua povertà.
Alla sua morte tutta la Sicilia, l’Ordine Benedettino, la Chiesa intera pianse la perdita di un uomo così grande, in una poesia scritta in siciliano, fra l’altro si disse di lui:
Lu populu l'amava immensamenti,
e mai si scurdirà di lu so nomu,
pri li poviri è luttu eternamenti
la morti inaspittata di tant'omu,
ma anchi ntra ddi lochi certamenti
sarà di tutti prutitturi e comu!
La so' prighiera sarà sempri eguali,
sarà sempri lu nostru Cardinali!