Dusmet abate a S. Nicolò l'Arena in Catania
Il Dusmet era stato nominato abate per unanime suffragio dei capitolari, ma prima di assumere l'incarico si era recato per qualche settimana al monastero di S. Martino delle Scale, per tornare alle sue origini monastiche e anche per favorire più stretti rapporti fra i due più grandi monasteri della Sicilia, accordandosi con l'abate dom Filippo Cultrera su diverse questioni.
Il 1 agosto dello stesso 1858, giungendo col vapore da Messina, il Dusmet arrivò a Catania, in maniera semplice, proibendo ai monaci di raggiungerlo al porto in carrozza, come era consuetudine di quel monastero. Giunto in chiesa vi celebrò la santa messa e poi volle sedersi in refettorio per un pasto semplice, proibendo anche il pranzo solenne, primo duro colpo alle dissipazioni per cui S. Nicolò era famoso.
Subito il giovane abate si mise a lavoro, si circondò di collaboratori fidati, come dom Remigio Chiarandà, nominato cellerario, e dom Salvatore Taranto, maestro dei novizi, e portà avanti una fitta riforma amministrativa per riportare il monastero entro la santità della Regola.
Rispecchiandosi nell'invito che san Benedetto rivolge ai suoi abati, Dusmet non volle mai imporre a qualcuno un'obbedienza senza contemporaneamente offrire il proprio esempio. Notando che era usuale il ritardo nelle preghiere, prese a recarsi in chiesa di buon mattino, prima di ogni altro monaco, e tutti, vedendo tale sollecitudine, impararono ad essere più ligi agli orari. Non aveva l'uso di rimproverare i monaci, ma li esortava con parole paterne e, quando sapeva che ciò non avrebbe sortito effetto, faceva in modo che il trasgressore lo sentisse rimproverare qualche altro buon monaco, spesso il suo segretario, e così, indirettamente, capisse che era nell'errore; o si faceva trovare al posto del portinaio dopo essersi accorto dell'uso di alcuni monaci a ritardare il loro ritorno in monastero. Si attenne sempre agli ordinamenti emanati dai Capitoli Generali: "A grado a grado e con soave fermezza modificò talune pratiche disciplinari, e ciò con pochissime ordinazioni e con moltissimo buon esempio" (Catania al Cardinale Dusmet, Catania, p. 3), ricorda il suo segretario dom Luigi Taddeo Della Marra, che egli stesso aveva accolto in monastero con uno stratagemma, essendo stato cacciato via poiché non vantava nobiltà di famiglia, condizione necessaria per divenire monaco a S. Nicolò. Il Dusmet, conoscendo la bontà di vita del giovane, lo fece nominare canonico della Collegiata di Catania e, con tale titolo, poté essere accolto in monastero e fare la professione solenne.
L'abate devolvette i soldi risparmiati con la mancata preparazione di lauti banchetti, da lui proibiti, in elemosine e per due anni si dedicò con paterno amore all'assistenza di dom Agostino Landolina, isolato a causa della tubercolosi, "fino alla morte, avvenuta in età di trentadue anni, il 27 marzo 1860" (Leccisotti, Il Cardinale Dusmet, p. 3).
Dopo tanto lavoro l'abate Dusmet riuscì nel suo intento, al punto che un testimone al processo di beatificazione ha potuto affermare: "Il Servo di Dio riuscì con molta prudenza e fermezza a restaurare la disciplina monastica particolarmente in ordine alla povertà, alla clausura e alla dimore regolare dei religiosi in convento" (Positio super introductione causae beatificationis..., Roma 1948, p. 199).
Tuttavia, mentra ancora il Dusmet era intento a riformare la disciplina del monastero, ecco sopraggiungere un nuovo grande problema per la vita monastica, che ben presto si sarebbe rivelato una sciagura. Con l'annessione del Regno delle Due Sicilie allo Stato sabaudo, infatti, iniziò una vera e propria persecuzione "legale" nei confronti della Chiesa, soprattutto a detrimento dei monasteri e dei conventi, rei di possedere numerose proprietà terriere che facevano gola al nuovo Stato, nato in condizioni economiche pessime e cresciuto in condizioni addirittura peggiori.
Con le leggi eversive del 1866, che portarono alla soppressione di Ordini e Congregazioni religiose, all'incameramento dei beni immobili e all'alienazione delle proprietà fondiarie loro appartenenti, i religiosi furono obbligati a lasciare i loro monasteri e a secolarizzarsi. Il Dusmet, volendo evitare ogni possibile danno ai propri monaci, predispose che il 25 ottobre, senza scalpore, lasciassero il monastero ed egli stesso li salutò uno per uno: "A ciascuno aveva consegnato una somma di denaro per il proprio mantenimento, 24 scudi di argento, posate e cucchiaino, oltre ad alcuni oggetti e libri" (Leccisotti, Il cardinale Dusmet, p. 119). Il Dusmet rimase in monastero ancora alcuni mesi, fino all'inizio del 1867, in attesa che gli ufficiali statali venissero a prendere possesso dell'immobile. Nel frattempo seguiva ancora i suoi monaci, benché essi fossero lontani dal monastero, tornati nelle loro famiglie d'origine o impegnati nelle chiese. Durante quel periodo fece allestire un "conventino" in casa Caff, per accogliere intanto quattro nuovi monaci.
Testo tratto da Giovanni Carovello Grasta, La nostra bandiera è la concordia. L'ecclesiologia del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, arcivescovo di Catania (1867-1894), tesi di Licenza anno 2017-2018, pp. 10-12.
E' vietata la pubblicazione del testo o di parte di esso, per ottenere il permesso gratuito si può inoltrare richiesta all'amministratore del sito, specificando la motivazione e il luogo della pubblicazione.
Per approfondire si consiglia:
Il Dusmet era stato nominato abate per unanime suffragio dei capitolari, ma prima di assumere l'incarico si era recato per qualche settimana al monastero di S. Martino delle Scale, per tornare alle sue origini monastiche e anche per favorire più stretti rapporti fra i due più grandi monasteri della Sicilia, accordandosi con l'abate dom Filippo Cultrera su diverse questioni.
Il 1 agosto dello stesso 1858, giungendo col vapore da Messina, il Dusmet arrivò a Catania, in maniera semplice, proibendo ai monaci di raggiungerlo al porto in carrozza, come era consuetudine di quel monastero. Giunto in chiesa vi celebrò la santa messa e poi volle sedersi in refettorio per un pasto semplice, proibendo anche il pranzo solenne, primo duro colpo alle dissipazioni per cui S. Nicolò era famoso.
Subito il giovane abate si mise a lavoro, si circondò di collaboratori fidati, come dom Remigio Chiarandà, nominato cellerario, e dom Salvatore Taranto, maestro dei novizi, e portà avanti una fitta riforma amministrativa per riportare il monastero entro la santità della Regola.
Rispecchiandosi nell'invito che san Benedetto rivolge ai suoi abati, Dusmet non volle mai imporre a qualcuno un'obbedienza senza contemporaneamente offrire il proprio esempio. Notando che era usuale il ritardo nelle preghiere, prese a recarsi in chiesa di buon mattino, prima di ogni altro monaco, e tutti, vedendo tale sollecitudine, impararono ad essere più ligi agli orari. Non aveva l'uso di rimproverare i monaci, ma li esortava con parole paterne e, quando sapeva che ciò non avrebbe sortito effetto, faceva in modo che il trasgressore lo sentisse rimproverare qualche altro buon monaco, spesso il suo segretario, e così, indirettamente, capisse che era nell'errore; o si faceva trovare al posto del portinaio dopo essersi accorto dell'uso di alcuni monaci a ritardare il loro ritorno in monastero. Si attenne sempre agli ordinamenti emanati dai Capitoli Generali: "A grado a grado e con soave fermezza modificò talune pratiche disciplinari, e ciò con pochissime ordinazioni e con moltissimo buon esempio" (Catania al Cardinale Dusmet, Catania, p. 3), ricorda il suo segretario dom Luigi Taddeo Della Marra, che egli stesso aveva accolto in monastero con uno stratagemma, essendo stato cacciato via poiché non vantava nobiltà di famiglia, condizione necessaria per divenire monaco a S. Nicolò. Il Dusmet, conoscendo la bontà di vita del giovane, lo fece nominare canonico della Collegiata di Catania e, con tale titolo, poté essere accolto in monastero e fare la professione solenne.
L'abate devolvette i soldi risparmiati con la mancata preparazione di lauti banchetti, da lui proibiti, in elemosine e per due anni si dedicò con paterno amore all'assistenza di dom Agostino Landolina, isolato a causa della tubercolosi, "fino alla morte, avvenuta in età di trentadue anni, il 27 marzo 1860" (Leccisotti, Il Cardinale Dusmet, p. 3).
Dopo tanto lavoro l'abate Dusmet riuscì nel suo intento, al punto che un testimone al processo di beatificazione ha potuto affermare: "Il Servo di Dio riuscì con molta prudenza e fermezza a restaurare la disciplina monastica particolarmente in ordine alla povertà, alla clausura e alla dimore regolare dei religiosi in convento" (Positio super introductione causae beatificationis..., Roma 1948, p. 199).
Tuttavia, mentra ancora il Dusmet era intento a riformare la disciplina del monastero, ecco sopraggiungere un nuovo grande problema per la vita monastica, che ben presto si sarebbe rivelato una sciagura. Con l'annessione del Regno delle Due Sicilie allo Stato sabaudo, infatti, iniziò una vera e propria persecuzione "legale" nei confronti della Chiesa, soprattutto a detrimento dei monasteri e dei conventi, rei di possedere numerose proprietà terriere che facevano gola al nuovo Stato, nato in condizioni economiche pessime e cresciuto in condizioni addirittura peggiori.
Con le leggi eversive del 1866, che portarono alla soppressione di Ordini e Congregazioni religiose, all'incameramento dei beni immobili e all'alienazione delle proprietà fondiarie loro appartenenti, i religiosi furono obbligati a lasciare i loro monasteri e a secolarizzarsi. Il Dusmet, volendo evitare ogni possibile danno ai propri monaci, predispose che il 25 ottobre, senza scalpore, lasciassero il monastero ed egli stesso li salutò uno per uno: "A ciascuno aveva consegnato una somma di denaro per il proprio mantenimento, 24 scudi di argento, posate e cucchiaino, oltre ad alcuni oggetti e libri" (Leccisotti, Il cardinale Dusmet, p. 119). Il Dusmet rimase in monastero ancora alcuni mesi, fino all'inizio del 1867, in attesa che gli ufficiali statali venissero a prendere possesso dell'immobile. Nel frattempo seguiva ancora i suoi monaci, benché essi fossero lontani dal monastero, tornati nelle loro famiglie d'origine o impegnati nelle chiese. Durante quel periodo fece allestire un "conventino" in casa Caff, per accogliere intanto quattro nuovi monaci.
Testo tratto da Giovanni Carovello Grasta, La nostra bandiera è la concordia. L'ecclesiologia del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, arcivescovo di Catania (1867-1894), tesi di Licenza anno 2017-2018, pp. 10-12.
E' vietata la pubblicazione del testo o di parte di esso, per ottenere il permesso gratuito si può inoltrare richiesta all'amministratore del sito, specificando la motivazione e il luogo della pubblicazione.
Per approfondire si consiglia:
- Tommaso Leccisotti, Il Cardinale Dusmet, Catania 1962.